Why serving EVS in Hungary is a gigantic challenge you should face

Hello everybody,

This is an open letter of sorts. Because I felt the need to explore and explode my thoughts.

I am currently a EVS volunteer in Hungary. I had the occasion to engage a three week trip that gave me a lot of time to think about that.

The first part of the trip was the mid term training, an occasion made to start reflecting with other volunteers about the EVS experience: what are we doing, how good it is, how to get the most out of it. Confronting my experience with the others, I started to look back on the seven months I spent so far, and I realised, it was a bad time.

Sad to say, I worked for an organization that was more bent on the money it was getting from the European Union than on any kind of quality of neither the volunteers’ permanence or the contribution of the organization to the society. Many times, trying to speak about those issues, I heard the phrase: “we don’t really care about you” or “if you don’t like how this works, leave”.

And I’ve been much luckier than other Hungarian EVS volunteers. A couple of them also reported having no actual work to do, but being in the organization building for the given amount of weekly hours. In fact, unemployed workforce.

Fact is, most hosting organizations are enrolled in EVS because it’s just a way to receive fundings from somewhere, keeping the organization (and ultimately, people’s jobs) alive. So one may understand why they might be concerned in using the workforce of new volunteers to do better, but it seldom is one of their top priorities.

In short: Hungary is poor.

Most of these associations’ goals are to deal with “people with fewer opportunities”, so, literally, poor people. And I don’t need data to understand that there is a lot of them in the country. You can just look outside the window, and see how every afternoon there is a different person rummaging in waste bins.

Or better yet, just take a train, one slow enough to pass nearby the smallest towns of the country. The ones in which multi-nationals industries did not step foot yet, making it the “purest part of Hungary” you might see. From the train window you could see really quiet places. You might think “peaceful”. Until you see that some houses are surrounded by barbed wire.

That is a powerful image that fits with the rest of my impressions about this country.

Yes, after seven months, i got only “impressions”. For many reasons i can enumerate quickly: language, time, skills.In fact, if you cannot speak Hungarian, don’t expect the average person to know English or any other language. Lots of ticket office dramas started at the train station with that. That means, in more immediate terms, that if you want to connect with the local society, you have to learn Hungarian, which requires time, a lot of time, and possibly a teacher. Like the one that was supposed to be provided by the hosting organisation, but wasn’t given because, guess it, they did not want to spend money on it.

And so, in most cases, you’ll be out of actual Hungarian social tissue. Out of the news livewire. All you can get for understanding the place, is looking at it, hearing stories about it. Sometimes the country lands in international news, and it’s never flattering; the government is under the rigid authority of a political party who is reportedly modifying the Constitution and the law for its own benefit, strong of a wide (although artificial) consensus. Words are the government is Anti-european, nationalist and xenophobic, controlling arts, culture, instruction and industry with some kind of an iron fist.

The more you learn about this attitude, the more you see it hidden in some Hungarians. They are no different from the country house surrounded in barbed wire; most of them are hard to open, their emotion stays hidden behind their worries: to become as poor as the people around them is their biggest fear. It paralyzes them. So in the end they do not care about what happens from the government, from the city, from the people around them. Which gives free hands to people who are trying to drive the nation to be completely surrounded by barbed wire.

I don’t mean to condemn the whole country or scare you out of it – quite the opposite. By serving EVS, you can find people who had the luck to travel outside of the borders, see other cultures, get an open mind through their educational life. And there are lots of EVS projects run by organizations that are actually making a difference, doing something good, and trying to improve the place they live in. I just wanted to point out the risk to you: some rare times, you’ll face a wall like I did. But do not forget for a second that the only presence of volunteers, of people from abroad, is a chance for more people to know that there is something else out there, a place called Europe, where all different populations belong and can be reminded we all deserve equality.

EVS is promoting an open world, and Hungary, in these times, needs it the most.

So I tell you: come and see the ugliness of this country. But see the beauty of it, too, and take part in saving it.

Hugs,

Daniele Latella

Ucraina, neve, chitarra, cibo, lavoro e solitudine

Caro Fabio,

ti scrivo sempre nei weekend, ché sono l’unico fra i ragazzi che si alza al mattino anche di domenica, e così posso vedere il sole illuminare l’albero davanti al nostro appartamento. E molto meglio oggi, perché è vestito di ghiaccio e circondato di neve. Ebbene sì, il 15 di marzo nevica. Mi ricordo che a inizio del mese Mihai diceva fiducioso “fra due settimane sarà primavera”, sapevo già allora che avrebbe avuto torto, non immaginavo quanto. Il 15 di Marzo è festa nazionale ungherese, in ricordo dell’anniversario di una rivoluzione contro l’invasore austriaco nel 1848, se ho capito bene. Quindi tutti si stavano preparando a un lungo weekend di tre giorni. Preannunciato da un vento tanto freddo da ghiacciare l’acqua per strada, la pioggia è diventata la più grossa nevicata da quando sono arrivato qui. Immagino che chi aveva progetti di partire ne sarà stato visibilmente scontento, per usare un eufemismo.

Io sono rimasto a casa a drogarmi di Chrono Trigger, uno storico gioco di ruolo dei tempi del Super Nintendo, se te lo stessi chiedendo. In generale, sto passando uno dei miei periodi di asocialità felicissima. In questo mese e mezzo ho conosciuto un sacco di persone, di diverse nazionalità, e tutto quello che abbiamo fatto è stato bere e talvolta ballare. Una volta li ho convinti a guardare il Rocky Horror Picture Show, perlomeno, ma ho sentito la mancanza dei concerti dal vivo.

Ti darò notizie sparse: con i soldi di Marzo ho comprato una chitarra. E bella che è, ci ho speso circa 75.000 fiorini, ti ci allego una foto, così capisci perché. Mi ero proposto di prenderla e l’ho fatto, ed ora ogni mattina mi ci metto lì e provo a strimpellare qualche pezzo dei miei Dusty Monkeys o Carolina Drama dei Raconteurs o cerco delle tablature qua e là. Può darsi che incontri qualche altro musicista e faccia su una banda (anche qui si suona di primo maggio). Ma, dovresti saperlo, mi sento molto più sicuro quando devo solo cantare. Mi passerà.

Per qualche giorno sono state a Nyiregyhaza quattro ragazze americane (del Kentucky). Facevano un viaggio in Europa durante lo Spring Break americano e ci siamo usciti ogni sera. Le abbiamo conosciute durante il compleanno di due finlandesi che fanno parte del nostro giro di forestieri in città. Al momento abbiamo quattro portoghesi, due finlandesi (oltre a quelle che erano qui solo per festeggiare il loro compleanno), quattro o cinque lituane e un po’ di ungheresi locali. E ovviamente, noi EVS: un italiano (io), una spagnola (Ana detta Nita), un francese (David), una russa (Anna detta Nichka), due rumeni (Andrei e Mihai) e, ultima arrivata, la palestinese Shaden.

Shaden viene da Nablus e conosce alcuni dei partecipanti allo scambio italo-palestinese You’R Rights, se non tutti, il che è fighissimo. Appena arrivata ha dovuto insistere un po’ per avere qualcosa che somigli a una camera sua, visto che nell’appartamento delle ragazze ci sono solo due camere e lei ha dovuto adattarsi ad una riorganizzazione dello spazio nella sala. Non ho ancora visto cosa si sono inventati , se paraventi o pannelli di legno. Mi toglierò la curiosità più tardi.

Intanto sto ancora affrontando la vita da solo. Nel mio appartamento abitiamo in quattro ma ognuno fa per sé, il che mi lascia nei guai. Affrontare lavatrici, pulizie di casa, ma soprattutto cucinare. Ti ho già scritto che i pasti sono un problema, con gli orari di lavoro che mi trovo. Ma un problema ancora più grande è non saper cucinare. Ho iniziato cucinando un po’  a caso, con risultati fra il bruciacchiato e l’immangiabile, poi ho deciso di pianificare i pasti (con tanto di applicazione sul telefono) e mi sono reso conto di una cosa: non ho la più pallida idea di cosa cucinare. Ho fatto del ragù di soia, una volta, ed era buonissimo, ma per ora a parte pasta e frittate, le mie idee culinarie sono quasi nulle. Mi darò allo studio delle ricette vegetariane su internet quanto prima, per salvare la mia dieta. Poi combatterò per inserire il pranzo nel mio orario di lavoro, e non una mezz’ora in cui vado a comprare dei noodles istantanei e torno in ufficio, ma due ore di preparazione, pranzo, lavaggio piatti e svacco.

Il fatto è che il lavoro è decisamente molto. Scrivere sei pagine a settimana si sta rivelando faticoso, per un “brevista” come me, e sto finendo le mie lezioni sempre qualche ora prima della messa in onda. Per fortuna, gli altri programmi sono tutti improvvisati sul posto e risultano molto più divertenti ed immediati da fare.

L’Italia continua a preoccuparmi. Un po’ il governo che non si forma e Grillo che vuole farsi nominare duce. Ma molto di più la situazione del Teatro Pinelli Occupato. Da quando sono stati sgomberati, gli occupanti hanno ricevuto sanzioni amministrative improponibili e stanno ricorrendo contro il provvedimento. Hanno scritto al prefetto di Messina e invitano altri a fare lo stesso. Se trovi il tempo per scrivere, allora, scrivi anche a lui.

Lo scorso weekend (non ti ho scritto perché) siamo andati in Ucraina. Abbastanza a caso e decisamente aggratis, che va benissimo, date le mie finanze demolite dalla chitarra. (Oh, la mia chitarra vale tranquillamente un mese di miseria.) La prima cosa che vedi sul suolo ucraino è la dogana: un buon chilometro di zona militare con guardie armate che ti chiedono i documenti. Il genere di cose che preferirei non esistessero per favorire la pace nel mondo. Ma sono opinioni. Siamo scesi dal bus per attraversare la dogana a piedi, “è più veloce non avere un veicolo da fargli controllare”. Oltreconfine, viene a riceverci la rappresentante dell’associazione con cui la nostra è in partenariato (va’ a sapere quale o cosa, non parla inglese) con tre taxi. Il mio taxista, prima di risalire in macchina, mostra ad un altro un coltello da cucina nero alto una spanna, probabilmente perché ne aveva bisogno in cucina, niente di losco, ma anche un ottimo benvenuto nella terra che fu russa. Salgo sul posto davanti e mi godo il viaggio. I taxi ucraini sono vecchie macchine, direi primi ’90 al massimo, e le strade sono vecchie e sforacchiate, anche se la guida esperta evita le buche peggiori.

Arriviamo a… ehm, boh. Non so leggere il cirillico. E non so ritrovare la città sulla mappa. Quindi restiamo sul fatto che so in che Stato mi trovo. Arriviamo all’hotel Il Pavone D’oro. Stelle non ne ho viste, ma è chiaramente un hotel di lusso. E noi prendiamo la suite e cinque stanze come se nulla fosse. Scoprirò più tardi che qui le cose costano davvero poco, e quindi possiamo permetterci il lusso locale facilmente. Mangiamo in sala privata con televisore mentre una tenda e una porta a vetri ci separa dalla “plebaglia” che sta preparando un concerto per la serata (è l’8 marzo). Intanto le raccomandazioni: attenti a non andare in giro da soli e non di notte, ché qui è pieno di zingari. Mi sembra di sentire mia nonna.

Facciamo una passeggiata nella festa di paese locale (che è poi il motivo per cui siamo qui, in teoria). Un sacco di vini, molti falsi (acqua e benzina con su scritto Cabernet-Sauvignon non fa un vino buono automaticamente, mi spiace) ma molti buoni, e con un assaggio per stand, torniamo in hotel già sul brillo andante. Anichka è felice di essere in Ucraina, divertita dal fatto di aver dovuto attraversare una dogana e farsi timbrare un passaporto per entrare in un Paese in cui può andare quando le pare da casa senza preoccupazioni. A cena, mi spiega un po’ di situazione locale: l’Est e l’Ovest dell’Ucraina sono divisi fra persone che vogliono staccarsi anche linguisticamente dalla Russia e persone che vogliono mantenerci buoni rapporti. In questa parte di profondo Ovest, può incontrare degli anti-russi che “sarebbero scortesi verso di me”, dice. Avverto il suo senso di appartenenza ad una Nazione Superiore, o quello che è; parla dell’Ucraina come fosse ancora una provincia russa e comunque dall’alto in basso. Posso condividere il suo odio per l’odio verso i russi, chiaramente, un po’ meno il suo nazionalismo.

La sera, abbiamo raccolto molti alcolici e ci chiudiamo nella suite per bere come dei disgraziati. Un grande uomo pelato si è unito a noi, è il fidanzato del nostro contatto/associazione locale, e anche se non parla inglese o altre lingue a noi comprensibili, si fa capire perfettamente quando fa uscire dal suo cellulare le note di Comfortably Numb. E così beviamo tutti insieme, fra la Palinka a cena e il vino dopo cena, ne ho fin sopra il fegato. Insieme ad Anichka cerchiamo di radunare volontari per andare di sotto a ballare, ma non otteniamo risposta. Anzi, David si mette a litigare con me. Mi accorgo in quella sera di non avere molto a che spartire con chi si chiude in una camera d’albergo a bere. Mi ci sono adattato per un mese. Ma quello che mi pace è altro.

E cioé la musica. MUSICA ROCK DAL VIVO. Sento dall’hotel i Nirvana suonati da una band locale e mi ci precipito. Non mi importa più di tutte quelle baracche che offrono vino, della rappresentazione in costume, del mercato locale, delle facce malate, parliamo la stessa lingua fatta di amplificatori. Mi importa molto di quella ragazza che canta e incita a saltare. Non si usa il pogo, in Ucraina. Avranno paura dei disordini. Ma quanto a cantanti hanno delle voci ottime. La prima band locale che sento si chiama Timer, la cantante Marta. Ma non li ho trovati su Internet, anche se sono stati loro stessi a darmi il nome con quelle tre parole d’inglese che avevamo. Ce ne sono altre due, una pessima e una stupefacente, ma a parte una stretta di mano, non ho potuto sapere come si chiamavano. Gran peccato, perché spaccavano.

Come ho potuto constatare anche qui a Nyiregyhàza, la musica è un’espressione culturale che non ha grandi sbocchi locali. L’impressione che mi rimane è che anche qui, le discoteche abbiano spazzato via gran parte dei giovani. O forse vivo solo in una regione un po’ sfigata. Non lo so.

Alla fine mi sto decidendo: suonerò, andrò a concerti, e come al solito me ne sbatterò di chi non vuole fare lo stesso. La scelta asociale forse non è coerente con i principi dello SVE, ma in realtà, io so che troverò dei degni compari anche dove li andrò a cercare. Ho un sacco da imparare, e un sacco di persone da incontrare ovunque andrò, non c’è di che preoccuparsi. Il meglio deve ancora venire.

DCIM100MEDIA

Primo mese: assorbire l’Ungheria

Caro Fabio,

Il mio primo mese ungherese sta finendo, anche se Febbraio è da sempre una fregatura chiamata mese che usiamo per sincronizzarci con il nostro viaggio intorno al sole. Non sono ancora parte del tessuto sociale locale, e credo non lo sarò per molto tempo. Le ragioni sono le seguenti:

– Gli orari ungheresi sono folli. Orario di lavoro: dalle 10 alle 18. Secondo le persone a cui l’ho chiesto c’è mezz’ora di pausa per pranzare. In pratica chi ho visto si fa una zuppa istantanea davanti al computer e tanti saluti. Io a lavorare sarò scarso, ma a gestirmi le pause per non annegare nel lavoro (cosa che faccio più di quanto sia psicologicamente legittimo, devo ammetterlo) divento intransigente. Per fortuna sono in un ambiente comprensivo, posso gestirmi il tempo come mi pare finché resto nelle scadenze. E farlo diventa sempre più facile col tempo. Orario delle feste serali: dalle 19 alle 4. Credo. I locali sono sempre pieni uguali tutta la sera. Ho visto posti riempirsi anche alle 18, se è per quello. Il che mi toglie il tempo per cenare. In pratica: Gli orari ungheresi combinata con la mia incapacità ai fornelli mi stanno dando qualche problema di corretta alimentazione. Ma come chi mi conosce sa, ho uno stomaco di piombo e piano piano sto imparando a cavarmela.

– La barriera linguistica è un muro di cemento armato spesso 6 metri con filo spinato e guardie armate lungo tutto il perimetro. Ok, forse no. I locali si bullano di avere la seconda lingua più difficile del mondo. Mi piacerebbe presentargli il somalo, l’ajawa e il coreano per fargli abbassare la cresta. Di fatto, però, imparare una lingua da zero è un’impresa che richiede mesi. Forse un anno non mi basterà ad adattarmi alla pronuncia e alla struttura grammaticale ugro-finnica. L’associazione ospitante pensa, basandosi sulle esperienze precedenti, che istituire un corso sia uno spreco di denaro, perché inefficace. Me la sto cavando con un sito chiamato Livemocha, consigliatomi dai miei contatti palestinesi. Ma bisogna studiare continuamente, tutti i giorni, per arrivare ad un livello base. E io “continuamente” non so nemmeno cosa voglia dire.

Per il resto, mi sono organizzato una diversa esistenza sul computer. In questo periodo sto guardando le puntate di Breaking Bad e giocando a Oblivion, cose che prendono molto del tempo libero che ho. Ho ripreso a fare il giornalista, nel senso che mi interesso di nuovo di quello che succede nel mondo e ogni mattina mi piazzo davanti all’aggregatore di news per raccogliere cose di cui parlare durante la trasmissione radio apposita.

Ma forse non ne ho parlato prima: ho 7 trasmissioni radio da gestire, insieme agli altri.
– “Lezioni di lingua”, programma individuale in lingua madre, ogni lunedì mi invento qualcosa di cui parlare sull’Italia, con tanto di musica italiana a commento.
– Lo show culturale era pensato in coppia, ma dal mese prossimo lo faremo tutti e sette insieme. Minestrone, insomma.
– Notizie politiche mondiali. Credo sia il mio pane giornalistico. Mi ci diverto un sacco, specie perché in questo mese è successo di tutto. Papi e Premier che si dimettono, elezioni, Informagiovani che vengono occupati. Insomma, non mi ci annoio, per quanto siano tutti eventi piuttosto gravi, sono professionalmente stimolanti.
– Notizie popolari/ Gossip show. Un filo meno divertente, perchè ci si ritrova a parlare di musica, cinema o celebrità, e siamo a corto di preparazione sul tema. Ma si trova sempre qualcosa.
– Point of View. Non sappiamo perché si intitola così. È un’ora in cui parliamo di cose riguardo all’Unione Europea. Per ora è lo spettacolo più duro, perché ci ritroviamo a tenere 40 minuti di discorso su un singolo organo dell’UE, e la cosa si rivela estremamente difficile, specie quando sono cose che bisogna imparare in primo luogo. Istruttivo e stancante.
– Free. Un tema prefissato e parole in libertà. Improvvisare non è un problema. L’ultima trasmissione mi ha anche dato un’idea. Inizierò a scriverci quanto prima. O forse tra 50 anni, non sono sicuro.
– Esperienze dal mondo. Interviste a persone. Ne dobbiamo fare uno ogni due mesi, quindi mi dimentico spesso della sua esistenza.

Lavoro a parte, facciamo anche degli incontri con chiunque voglia imparare la nostra lingua. Per ora ho avuto quattro studenti. Due erano persone che vogliono imparare sul serio la lingua per ragioni di studio o lavoro. Altre due erano una ragazza “di copertura” e un’altra che voleva solo un appuntamento. Così ho avuto una ragazza ungherese per circa un giorno, prima che decidesse di sparire dalla circolazione. Al gioco sono fortunatissimo, come dice il proverbio.

Ti lascio, sono stordito dal nuovo video di David Bowie e devo impararlo a memoria. Per quanto ci saremo sentiti di nuovo avrò comprato una chitarra, probabilmente. Saludos!

Prima settimana: molto lavoro, due lingue e rabbia a 1200 km di distanza

Caro Fabio,

 

stamattina mi sono svegliato. Erano le undici, e oggi è sabato, il primo giorno libero dopo la prima settimana di lavoro. Sono andato in cucina per scoprire che ore fossero dall’orologio del microonde, e fuori dalla finestra ho visto una persona in strada con l’ombrello. Piove ancora? No… Nevica. Una neve così fine che non si permette di cadere prima di aver ballato per ore nel vento gelido di Nyiregyhaza. E così ora mi sono spostato in cucina per poterla vedere ogni tanto, mentre ti scrivo.

 

Il lavoro in radio è…. beh, è lavoro. “Buongiorno, come prima cosa scrivete 6 pagine di testo nella vostra lingua per domani”. 6 pagine! È il nostro primo programma, le Lezioni di lingua, in cui in pratica parleremo di quello che ci pare per fare impratichire gli ascoltatori con la nostra lingua madre. Un’ora di programma ad argomento libero. Inutile dire che abbiamo passato tutti la notte a tentare di finirlo. E anche capire come funziona Soundforge. Fatto sta che il mio primo programma è finito e andrà in onda lunedì 18 alle 13.00. Ci siamo tutti messi in overdrive per stare nei tempi, mangiando di quando in quando e crollando invece di dormire e, beh, in effetti credo prevedessero di farci finire prima. Ma le prossime saranno più facili, anche perché posso iniziare a scriverne da subito così da dover solo registrarle quando è ora.

 

In Italia, nel frattempo, il finimondo. L’informagiovani di Alessandria, che mi ha mandato qui dove sto, è stato chiuso il primo di febbraio. Venti anni di servizio cancellati in un giorno. E non solo l’Informagiovani, ma tutte le altre realtà collegate all’Aspal. Soprattutto il punto D. Ci sono cresciuto dentro al Punto D. Senza di lui, non sarei mai entrato in Alessandria, conosciuto le persone che ho conosciuto. Dieci anni della mia vita hanno a che fare con quel posto, mese più, mese meno. La mia seconda casa, l’ho sempre chiamato. E me lo chiudono quando sono appena partito per un anno? Tutto quello che posso fare è scriverne. Odio l’impotenza da distanza per una serie di motivi che sai e per altri che ignoro anche io. Ma a casa sono rimasti anche degli amici che la pensano come me e stanno smuovendo mari e Monti, vedrò come si sviluppa la situazione.

 

Un’altra storia buffa è una telefonata che ho ricevuto mercoledì. Era una donna dal For.Al. di Valenza che mi chiedeva dove piazzare una ragazza che voleva iniziare teatro. Fa molto cerchio della vita, noi che ce andiamo e i giovani che cominciano, vero? In ogni caso la mia prima preoccupazione è stata farle notare che stava facendo una chiamata internazionale e mi sono fatto lasciare la mail per poi perderla. Per fortuna so come recuperarla, e fare il mio dovere di informagiovani valenzano. Valenza è morta, lo sai. Ma la voglia di fare, quella non la può ammazzare nessuno.

 

È stato molto divertente anche la mia prima lezione-conversazione di Italiano. Un’insegnante della scuola di fronte alla nostra ha pensato di invitarmici per poter impratichire dei ragazzi al primo anno (16-17 anni). Si divertivano un mucchio, ed è bello fare delle battute e poi farle tradurre per vedere quando iniziano a ridere. Quando gli ho chiesto di insegnarmi qualche parola di ungherese, nella lista è comparso quasi subito “ti amo”. Sarà un caso che me l’abbia scritto una ragazza? Non lo so. So che rideva. Per parlare di avventure del genere sarà meglio aspettare un po’. Tipo due anni.

 

E infine il motivo per cui stamattina mi sono svegliato alle undici. Ieri notte siamo usciti completamente a caso e abbiamo seguito una presenza: cinque enormi riflettori che illuminano il cielo. Ci aspettavamo un discotecone o qualcosa del genere. Beh, l’edificio era un normalissimo bar, all’esterno. Entrammo e ci trovammo davanti uno spettacolo indimenticabile. Un Karaoke Bar. Ora, se fossi stato in Italia, avrei lasciato la sagoma sui muri come Gatto Silvestro alla sola prospettiva, ma l’ho presa come una grande occasione per imparare la pronuncia ungherese. E funziona! Basta sentire attentamente le parole berciate dai vicini di tavolo (compresa quella che si è dimostrata fraterna e mi rubava il cappello) per sentirsi ungheresi all’istante. Esperienza consigliata nella sua componente più pop-trash.

Credo di avere detto tutto. Ora che abbiamo internet in casa, mi sto sbizzarrendo nell’impostare un sacco di cose per cui dovrei aprire un nerdblog, ma mi risparmierò di farlo. Aspetto il tuo racconto!

 

Un abbraccio,

Dan

Tutto tranne innamorarsi

Caro Fabio,

Com’è Londra in questo periodo? In questo momento Nyiregyhaza è attraversata da una pioggia mista a neve, e da un vento così forte da rendere le precipitazioni quasi orizzontali. Sono nella mia stanza/ingresso e scrivo questa lettera dopo una colazione di domenica mattina. Da quando sono arrivato abbiamo fatto solo tre cose: la spesa, la festa, la sbornia. Cos’altro ci si può aspettare quando si arriva di giovedì?

Sono salito sull’aereo a Malpensa e di fianco avevo una ragazza ungherese con una giacca dei Misfits, gli occhi azzurri e i capelli ricci. Li ho presi per un segno di buon augurio.

Da Budapest, ho preso il treno per attraversare l’Ungheria. Le stazioni sono ancora molto lontane dai nostri centri commerciali di marmo o dalle nostre casupole semiabbandonate. Le biglietterie sono dei prefabbricati chiusi in una rete di metallo. I treni sono tenuti piuttosto bene, perlomeno l’Intercity. E il controllore è passato qualcosa come quattro volte nelle tre ore di viaggio. In generale, l’impressione è che le ferrovie ungheresi siano tenute molto meglio di quelle italiane.

Arrivato a Nyiregihaza (ah, a proposito, si pronuncia gnìirediaza) la prima cosa che mi capita davanti è un negozio di vestiario, e qualcosa dei manichini mi sembra strano; i loro busti sono un bel po’ più allungati di quelli che ho visto finora. E poi mi accorgo che non si tratta di un’errore: anche le ragazze sono così. Il corpo slanciato è un canone di bellezza locale. E con questi pensieri in mente comincio a notare diversi negozi di estetisti sparsi per la città. Qui si investe molto sulla bellezza femminile. Ho visto un sacco di femmine locali che investirei volentieri. Non di più di quante ne vedo passeggiare per le città in cui giro abitualmente, sia chiaro. Esplorerò ulteriormente, e mano a mano che imparo l’ungherese e mi ambiento.

Arrivo davanti al teatro della città (Brecht approverebbe), dove la nostra tutrice locale Lilla dovrebbe essere ad aspettarmi. Non c’è, e sostiene che il luogo di rendez-vous fosse un altro. Tenta di spiegarmi dove andare per incontrarsi, ma deve arrendersi e venirmi a prendere. Già da quando l’hostess dell’aereo ha parlato, per strada, ho capito che l’inglese ungherese è una lingua a me incomprensibile. Arriva davanti al teatro locale con David, il mio nuovo coinquilino francese, e Isaac, un ragazzo Erasmus spagnolo.

Andiamo a casa, nel posto che chiamerò “casa” per il prossimo anno. È un appartamento discretamente grande, una bella cucina, un bagno con vasca, tre stanze in un piano superiore e una stanza proprio di fianco all’ingresso; la chiamerei open space, perché è sprovvista non solo di porta, ma di tutto il muro che la dovrebbe dividere dal vestibolo. La prendo subito: la finestra guarda a nord, e chiunque entra o esca dalla casa mi passerà davanti. Ne ho avuto abbastanza di chiudermi nella mia camera, dove vivevo, quindi scegliere per quest’anno una stanza senza porta mi sembra un’ottima premessa.

Nel centro di Nyiregihaza c’è un centro commerciale che si chiama Corsò, e il supermercato all’interno è uno Spar. Isaac ci guida fino lì. Noto diverse marche italiane all’interno, con l’etichetta nella lingua di Dante. Mi piace questo fatto, sembra un processo di ambientazione graduale. Isaac ci mostra una cosa cui prestare attenzione, lo yogurt e la tejfel si trovano in barattoli uguali, e se non impari la differenza in fretta rischi di mangiare quello che credi essere uno yogurt e rimanere molto deluso.

Isaac ci accompagna a casa e ci saluta: andrà una settimana in Svezia. La sera arriva il nostro coinquilino rumeno Andrei. È il più anziano del gruppo e parla già l’ungherese. È già ambientato, insomma, e aiuterà noi a farlo.

Il giorno dopo arrivano Ana, la ragazza spagnola, e Mihail, il ragazzo rumeno. Ana è una galiziana di La coruña, e quando parla mi sembra di essere in Veneto. Mihail è uno di quei ragazzi da discoteca, un cinghialotto insomma, spesso muscolarmente, un po’ incespicante con la lingua, ma sempre pronto a ridere, bere birra, e mettere musica a volumi inaccettabili.

Lilla torna e ci espone il nostro lavoro che inizierà lunedì: terremo 8 programmi diversi, tutti registrati, e volendo parteciperemo al venerdì Live. Si parlerà anche di cronaca, e le raccomandazioni di Lilla sono quelle che mi aspettavo: esprimere opinioni è proibito. Il che è molto strano in un talk show. Ciò mi riporta alla mente una cosa che ho letto di traverso dalla Stampa di un passeggero dell’aereo con cui sono arrivato. La notizia parlava di qualcuno in Ungheria, probabilmente del governo, che stava auspicando di togliere la cittadinanza ungherese agli scrittori dissidenti. Essendo io scrittore e dissidente almeno allo stesso modo, credo che approfondirò la questione appena mi è possibile. E so perfettamente, dopo anni di TG italiani, che non c’è bisogno di esprimere la propria opinione per trasmetterla. È sufficiente ordinare i fatti nel modo giusto. La vedo come una sfida giornalistica interessante.

Festa scaldacasa, dunque. È venerdì sera, recuperiamo alcool. Lilla porta i suoi amici e il fidanzato, Andrei fa venire la sua ragazza da Debrecen, e spuntano altre persone francesi e spagnole da non so dove. Ci si sbronza, insomma, chiacchierando di questo e quello. Sabato andiamo anche in un pub locale: Beatles e Papa Roach in diffusione, Mobili e pareti in legno, un calcetto, molte birre, gente sbronza con facce da bambino sperduto, tutte cose che fanno intenerire un cuore di punk. Ho conosciuto un sacco di gente senza parlare un secondo. Il che mi ha fatto pensare che ho voglia di riprendere in mano la chitarra.

Quindi, quello che mi aspetto di fare quest’anno è proprio quello che vorrei fare nella vita: scrivere, parlare in radio, fare giornalismo, suonare, allenarmi fisicamente, darci dentro di alcolici, imparare un sacco e investire. Tutto tranne innamorarsi, quello l’ho già fatto.

Fammi sapere come va la scuola di arti performative, sto ancora aspettando di sapere dove sei riuscito a stabilirti, se l’hai fatto, e cosa ti fanno fare.

Un abbraccio,
Dan